La Passione, di Alessandro Manzoni

La Passione, di Alessandro Manzoni

O tementi dell’ira ventura,
cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
come gente che pensi a sventura,
che improvviso s’intese annunziar.
Non s’aspetti di squilla il richiamo;
nol concede il mestissimo rito;
qual di donna che piange il marito,
è la veste del vedovo altar.

Cessan gl’inni e i misteri beati,
tra cui scende, per mistica via,
sotto l’ombra de’ pani mutati,
l’ostia viva di pace e d’amor.
S’ode un carme: l’intento Isaia
proferì questo sacro lamento,
in quel dì che un divino spavento
gli affannava il fatidico cor.

Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all’Eterno,
spunterà come tallo da nuda
terra, lunge da fonte vital?
questo fiacco pasciuto di scherno,
che la faccia si copre d’un velo,
come fosse un percosso dal cielo,
il novissimo d’ogni mortal?
egli è il Giusto, che i vili han trafitto,
ma tacente, ma senza tenzone;
egli è il Giusto; e di tutti il delitto
il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone,
che morendo francheggia Israele;
che volente alla sposa infedele
la fortissima chioma lasciò.

Quei che siede sui cerchi divini,
e d’Adamo si fece figliolo;
né sdegnò coi fratelli tapini
il funesto retaggio partir:
volle l’onte, e nell’anima il duolo,
e l’angosce di morte sentire,
e il terror che seconda il fallire,
ei che mai non conobbe il fallir.

La repulsa al suo prego sommesso,
l’abbandono del Padre sostenne:
Oh spavento! l’orribile amplesso
D’un amico spergiuro soffrì.
Ma simile quell’alma divenne
Alla notte dell’uomo omicida:
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s’accorge che Sangue tradì.

Oh spavento! lo stuol de’ beffardi
baldo insulta a quel volto divino,
ove intender non osan gli sguardi
gl’incolpabili figli del ciel.

Come l’ebbro desidera il vino,
nell’offese quell’odio s’irrita;
e al maggior dei delitti gl’incita
del delitto la gioia crudel.

Ma chi fosse quel tacito reo,
che davanti al suo seggio profano
strascinava il protervo Giudeo,
come vittima innanzi a l’altar,
non lo seppe il superbo Romano;
ma fe’ stima il deliro potente,
che giovasse col sangue innocente
la sua vil sicurtade comprar.

Su nel cielo in sua doglia raccolto
giunse il suono d’un prego esecrato:
i Celesti copersero il volto:
disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
sulla misera prole ancor cade,
che, mutata d’etade in etade,
scosso ancor dal suo capo non l’ha.

Ecco appena sul letto nefando
quell’Afflitto depose la fronte,
e un altissimo grido levando,
il supremo sospiro mandò:
gli uccisori esultanti sul monte
di Dio l’ira già grande minaccia,
già dall’ardue vedette s’affaccia,
Quasi accenni: - Tra poco verrò -.

O gran Padre! per Lui che s’immola,
cessi alfine quell’ira tremenda;
e de’ ciechi l’insana parola
volgi in meglio, pietoso Signor.
Sì, quel Sangue sovr’essi discenda;
ma sia pioggia di mite lavacro:
tutti errammo; di tutti quel sacro-
santo Sangue cancelli l’error.

E tu, Madre, che immota vedesti
un tal Figlio morir sulla croce,
per noi prega, o regina de’ mesti,
che il possiamo in sua gloria veder:
che i dolori, onde il secolo atroce
fa de’ boni più tristo l’esiglio,
misti al santo patir del tuo Figlio,
ci sian pegno d’eterno goder.


Attribuzione immagine: di Diego Baglieri - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Wikimedia
Dona